Giovanni Giolitti aveva appena litigato aspramente con Agostino De Pretis che, “come banderuola al vento”, con i suoi governi era trasformisticamente passato dalla sinistra alla destra e, poi, ancora alla sinistra. Assab, perla dell’Eritrea, era un po’ più sicura da qualche anno, precisamente dal 1881; ossia da quando era diventata colonia italiana dopo che la Società Rubattino di Genova ne aveva acquistato la parte costiera per appoggiare con scali adeguati le sue navi, e dopo che, con tanto di contratto sulla pelle dei Ras locali, era stata venduta all’Italia.

C’era guerra, da quelle parti, per gli intrighi delle grandi potenze coloniali e perchè Re Menelik proprio non riusciva a mandarla giù: era la terra dei suoi avi, della sua sposa Taitù e dei suoi figli da difendere con ogni mezzo disponibile. Sicchè le necessità belliche crearono un gran movimento di soldati e di navi, fra le quali la nave Italia, dai porti del nostro Paese a Massaua. Peru Magunella da Borgosesia, vale a dire l’incarnazione simbolica di tanti giovani di leva o di uomini vigorosi ma poco addentro alla ragion politica dell’adolescente Stato Unitario (era nato nel 1862 ma, si sa, gli stati crescono più lentamente, al ritmo della Storia) non la scapolò: mandato dalle parti dell’Eritrea e dell’Abissinia, non ebbe certo voglia, in mezzo a quei mori, di seguire il consiglio della canzone in voga e cercare la bella Virginia. Però vide cose assai interessanti anche senza essere Giulio Cesare. Contribuì con le sue personali “scòvai d’la malora” a vincere e sul finire degli anni ’80 (1880…) a regalare alla Patria la pace di Ucciali. Fu roso come tutti i soldatini in chepì e sahariana dalla gelosia per Gin Fiammàa, la sua bella, rimasta in quel di Borgosesia.

Quando il Peru, pregustando il trionfo e la gioia di raccontare agli amici un’infinità di stranezze di “quei selvaggi” ritornò, trovò cambiamenti da rimaner trasecolati. Ma s’arrabbiò anche moltissimo perchè provò con ogni fibra del suo essere quanto amaro sia il gusto delle corna. E, non riuscendo davvero a sopportare quel tossico che  Gin Fiammàa gli aveva scodellato, si buttò nel Sesia. Però le cronache se ne dimenticarono presto perchè la storia fu a lieto fine. Il merito, bisogna riconoscerlo, va dato all’arcinoto inventore Chin che aveva “firmato” ritrovati portentosi: il “rasoio magico” a lamette, ingiustamente e vergognosamente snobbato da quegli sciovinisti dei londinesi e dei parigini; la “macchina del moto perpetuo”, alimentata dai raggi di Re Febo che si riflettevano su latte vuote le quali, quindi, anticiparono le moderne pile solari; l’operazione indolore zac-zac che, battendo in volata la cura Woronoff com’è risaputo giunta tanto tempo dopo, assicurava anche ai Peru più spompati la possibilità di arrivare alle eccelse nonchè irraggiungibili vette dell’arte amatoria.

Ma (il Chin naturalmente) che provò una volta di più  come nessuno sia profeta in patria e quanto ingiusta sia la comunità versi i genii. Infatti, questo concentrato di barbiere-cerusico-chimico-alchimista-sarto-stilista-ecc. ecc., che all’occorrenza faceva anche il socialista e il radicale predicando la “libertà dei ppoppoli”, si ritirò imbronciato perchè incompreso a Bettole dove era nato. E dove aprì un salone, appunto, da sartobarbiere. E dove si diede alla pesca sul Sesia con il bertavello. E dove, infine, con un bertavello riportò a galla nonchè in vita il Peru che, come tutti i suicidi mancati si riconciliò immediatamente con la vita. Ricacciò nell’oblio le corna. Sposò la sua Gin fiorente e leggiadra come la Primavera di Botticelli. Apprezzò più che mai il collegamento ferroviario della pianura con Borgosesia attivato da poco. E diede libero sfogo alla sua fantasia condita di favolosi ricordi, trasformando il tutto in quattro giorni memorabili.

Con la piazza principale del “Bôrg” trasformata in un immenso palcoscenico degno di una rappresentazione verdiana da far invidia agli scenografi del teatro alla Scala. Con sfilate di carri (il Trionfale per il Peru e la Gin, in testa, gli altri quattro subito dopo). Con balli e veglioni. Con il Mercu Scûrot, dulcis in fundo, che puntuale andava avanti ogni anno dal 1854 e nel quale si fondevano tutti i Peru e le Gin di Borgosesia diventando ancor più un sol popolo.

E’ tutta una metafora, si capisce. Ma è anche più di una metafora. E’ un assieme di realtà robustamente concrete che riflettono la Storia. Ma sono anche i sogni, gli stupori davanti alle crudezze della vita e degli uomini, l’arte straordinaria che il popolo ha di raccontare e scrivere favole traducendo ogni moto, ogni impulso ironico e satirico verso il Potere in azione scenica. E’ la cornice (ma anche il terreno di cultura, l’uovo dal quale una Creatura trae alimento e nella quale si sviluppa) dentro cui, oltre un secolo fa, il Carnevale di Borgosesia imboccò una via nuova, più delineata, e prese gagliardamente a marciare verso i giorni nostri. Dunque, non Centenario bensì soltanto una importante fase storica? O soltanto la fase più amata (ed è certamente giusto) perchè quella più facilmente ricostruibile? Non corriamo e state a sentire.

Il Potere nel Medioevo s’irritò moltissimo per le tendenze “carnascialesche” del popolo borgosesiano. E nel 1387, per la precisione oltre sei secoli fa, il capitolo 190 degli Statuti di Borgosesia regolamentò il comportamento di “quelli che avranno danzato e condotti cori in chiesa”. Non solo norme e ammonimenti, però, ma anche pene per i trasgressori e premi “per gli accusatori, purchè questi fossero persone di buona fama” scarsamente importando se dediti alle “spiate”.

Ecco, comunque, in breve, che cosa sarebbe toccato agli imputati riconosciuti colpevoli e che cosa a coloro che avessero alzato il dito nei loro confronti: cinque soldi imperiali di multa divisi in parti uguali a favore delle casse comunali e della “scarsella” del delatore. Tuttavia, è forse ingiusto (o eccessivo) essere oggi severi con quelle lontane lingue lunghe benpensanti che s’industriavano per riempire le casse voraci del Comune e per gonfiare le loro tasche. Infatti, dopo la grande paura dell’anno Mille (Mille e non più Mille, ci sarà la fine del Mondo) le plebi si scocciarono della macerazione della carne che, nei castelli, dame e cavalieri, avevano già dimenticato da un pezzo.

E, dai un giorno dai l’altro, nelle chiese le rappresentazioni sacre si trasformarono in “mascarate”; appunto nelle “mascarate medievali” di cui si parla con dovizia di particolari nelle storie del teatro, del ballo, del folclore popolare della vecchia Europa. Sotto l’occhio all’inizio bonario e tollerante della Chiesa, uomini e donne presero sempre più alla lettera il permesso di “levare la carne” (in latino Carnem levare, da cui Carnevale) e nei luoghi sacri arrivarono a combinarne di ogni colore. Non è possibile sapere se nelle contrade borgosesiane la degenerazione raggiunse il grado dell’Inghilterra dove, nel 1348, Re Edoardo trasformò le chiese in sale da ballo e dove si svilupparono le coreografie divenute poi memorabili in epoca rinascimentale. E’ però certo che in qualche modo, anche a Borgosesia, si andò al di là del segno, la promiscuità fra i sessi ebbe sempre meno confini rigidi e risaltarono fuori prepotenti i germi che avevano angustiato i potenti e gli austeri sacerdoti fin dai tempi della Grecia classica.

Ad esempio: l’irriverenza e la satira per colpire il potere costituito, nascoste dietro la maschera ma taglienti come un rasoio. O il prorompente istinto, in ogni epoca proprio delle plebi, di rappresentare se stesse e la bislacca esistenza nel suo divenire. Se dovessimo dar credito al vuoto di ben quattro secoli, dovremmo concludere che la minacciata (e magari anche applicata) severità medievale del Comune di Borgosesia fu assai efficace e tale da spegnere ogni velleità godereccia. Infatti, dal Rinascimento al Congresso di Vienna, nel 1814, l’Europa propose ben altro scenario carnevalesco e teatrale. Sicchè non è pensabile che Borgosesia e la Valsesia ne siano rimaste tagliate fuori completamente. E non è pensabile soprattutto se si fanno presenti le opinioni che sul Carnevale, il teatro, i balli, le maschere e le mascherate ebbero i signori che dominarono la terra valsesiana: prima i Visconti e gli Sforza; quindi i Savoia dopo l’annessione nel 1707 della Valsesia al Piemonte. Prendiamo gli Sforza, per la precisione Galeazzo Maria. Era uno straordinario intenditore di maschere, che a quel tempo si chiamavano fattezze e che erano prodotte in maniera davvero insuperabile in Emilia. Il segretario del Signore di Milano, poveretto, nel 1741 dovette precipitarsi a Bologna ad acquistare per i balli di Carnevale uno stock di maschere artistiche che “non siano esternamente spalmate di geso, non puzino di pece e di zolfo; siano colorate bene, riproducano le fattezze degli individui”.

Le maschere e il Carnevale piacevano pure moltissimo all’ingenua (o perfida?) Isabella d’Este. Avuta notizia nel 1503 che Cesare Borgia aveva appena accoppato Oliverotto Vitelli e i fratelli Orsini, gli inviò fattezze di gran pregio “dopo le fatiche e le lotte della sua gloriosa spedizione”. L’autore di quei pezzi rari era Guido Mazzoni, un artigiano modenese che, poi, passò alla scultura sacra e che riuscì meritatamente ad infilarsi nella Storia dell’Arte. Ma più di ogni altro, in quell’epoca, fu estimatore di carri allegorici e mascherate il papà di Cesare Borgia, detto anche il Valentino; ossia il Pontefice Alessandro VI. Amante com’era del bello e del divertimento questo Papa, arrivato in Italia dalla natia Spagna col nome di Roderigo Lanzol, incominciò ad occuparsi attivamente delle sfilate carnevalesche della Città Eterna nel 1456, allorchè lo zio Calisto III lo fece Cardinale imponendogli il nome di Borgia. Per poter assistere in santa pace alla sfilata carnevalesca, l’ultimo giorno di Carnevale del 1501 Papa Borgia mandò letteralmente all’inferno l’ambasciatore della Serenissima Repubblica di Venezia, preoccupatissimo della brutta piega presa dalla guerra contro i Turchi.

Poco più a nord, a Firenze, stavano i Medici che ugualmente s’intendevano molto di Carnevale, oltre che di “buon governo” mercatura e banca. Lorenzo il Magnifico codificò addirittura i rituali a cui, quale più quale meno, anche ai giorni nostri si ispira un buon Carnevale. E, durante la sua signoria, i grandi artisti rinascimentali non disdegnarono di progettare e realizzare i trionfi, ossia i carri allegorici, mentre altri intellettuali ideavano falò suggestivi e spettacoli, o scrivevano musica e poesie. La più celebre, diventata uno degli inni alla gioia e al Carnevale, è proprio del Magnifico: “Quant’è bella giovinezza,/che si fugge tuttavia!/chi vuol esser lieto, sia/di doman non c’è certezza…/”. Altrettanto noto è il suo titolo: “La canzone di Bacco”. Durante il Rinascimento la “malattia” del Carnevale con tutte le sue varianti, fu comune alle città e ai borghi del Nord come del Sud dove Napoli fece parlare molto di sè, e dove “Pulicinella” assunse le fattezze, all’un tempo intriganti e bonarie, oggi conosciute. Tuttavia, le usanze più marcate e che più peseranno anche nei secoli successivi, si ritrovano a Venezia, a Bologna e a Milano che sulla Valsesia ebbe un’influenza notevolissima e che considerò sempre “suo territorio”. Fermiamoci a Venezia e ai veneziani. Portarono l’arte della maschera e dell’usar la maschera ad una raffinatezza che rasentò livelli maniacali, peggio la “follia”. Infatti, i più fissati con la maschera andavano in chiesa e a letto. La Serenissima se ne preoccupò perchè “le maschere in Vinegia nel carnovalo sogliono quasi tutte alle 23 ridursi sulla piaza di Santo Stefano, e quivi passeggiando trattenersi fino quasi due ore di notte”. A mali estremi, estremi rimedi: la Repubblica ordinò che “a messa e alle riunioni di governo” non ci si sarebbe più potuti recare con il volto coperto dalla maschera.

E adesso vediamo che cosa avveniva nella grassa patria del Dottor Ballanzone perchè, come constateremo più avanti, la truculenza è simile a quella, fortunatamente incruenta, che, giusto 110 anni fa, fece divertire il Peru e la Gin davanti al gabbione del Ras Ciancias, allestito in piazza. I figli di San Petronio, fors’anche per assecondare la loro inclinazione al “mangiar di grasso”, avevano inventato per Carnevale le corse lungo le vie di Bologna di tori e di maiali che, inseguiti e assediati, venivano finiti a bastonate. La crudeltà (e il coraggio) andò ben oltre con lo spettacolo “carnascialesco” del Cavaliere e della gatta. Ecco, in breve, di che si tratta. I popolani bolognesi allestivano una grande gabbia. Dentro veniva messa una gatta arrabbiata. Il cavaliere doveva spogliarsi completamente, a sua volta introdursi nel serraglio, affrontare il felino furioso, non adoperare mai le mani ed ucciderlo con i morsi. Uno che proprio non gradiva simili spettacoli, o anche innocenti sfilate di carri, fu il fiorentino Girolamo Savonarola, frate domenicano che fece inquietare Alessandro VI Borgia anche più dell’inopportuno ambasciatore di Venezia. Prima che il Papa, grande fan di Carnevali, lo facesse condannare a morte, il frate organizzò squadre di “guardie rosse” ante litteram chiamate “piagnoni”. Le spedizioni punitive nella Firenze godereccia contro coloro che avevano in casa maschere, costumi carnevaleschi ed altri “simboli del Diavolo”, non si contarono più. Il 1497 fu davvero un anno di terrore.

Il 7 Febbraio, ultimo giorno di Carnevale, i “piagnoni” radunarono in piazza della Signoria ogni indumento od oggetto che servisse per la perdizione. La catasta che si formò raggiunse i 28 metri di altezza ed in breve si dissolse divorata da fiamme con bagliori infernali. Su, al Nord, un altro che si seccò delle intemperanze carnevalesche anche di tanti suoi confratelli, fu l’agostiniano tedesco Martin Lutero, poi fondatore del Protestantesimo contro la Chiesa Cattolica Romana. Nel 1517, dopo la pubblicazione a Wittemberg delle 95 tesi luterane, la scomunica irrogata da Leone X e la proscrizione di Carlo V nei confronti dell’ex monaco rompiscatole, sull’Europa si chiuse una morsa d’acciaio temprato dal moralismo. Per il Carnevale incominciarono apparentemente tempi duri. E, dopo il Concilio di Trento, conclusosi nel 1563, ad aumentare a dismisura la durezza contribuì la Riforma cattolica, altrimenti conosciuta come Controriforma. La Valsesia, lembo estremo della controriformista archidiocesi di Milano, ne sa qualcosa. San Carlo Borromeo e il suo biografo Bescapè la elessero a baluardo contro quei peccatori licenziosi ed eretici degli svizzeri e simili, eredi dei barbari. Abbondarono, pertanto, in rigorismo di cui inevitabilmente si permeò la cultura locale. Forse, ecco perchè ancora oltre un secolo fa i panni della Gin Fiammàa dovettero essere indossati da Francesco Ottone meglio conosciuto come “Cichin Utun”. E, forse, ecco perchè la Gin non riuscì fino al 1933 ad essere donna sul serio prendendo in prestito le sue graziose fattezze da Pina Mattioli. Ma gl’insegnamenti della Controriforma che inchiodavano le donne alla modestia più monacale con il divieto di fare l’attrice o la ballerina, non furono ovunque presi alla lettera. Anzi, l’Europa se ne infischiò abbastanza. E, da allora, ognuno dei secoli che ci separano dai giorni nostri produsse un genio della teatralità popolare, od un grande assertore delle splendide, grandi mascherate o feste da ballo dove le donne erano giustamente protagoniste, come e più degli uomini.

La galleria è aperta da William Shakespeare, nato nel 1564 in quel di Stratford on Avon e “mago” del teatro nonchè codificatore di uno stile di rappresentazione della commedia umana passato alla storia come “elisabettiano” dal nome della sovrana inglese di quegli anni. Ricordate il Falstaff delle Allegre Comari di Windsor, tramandatoci cornuto come un cervo dal settecentesco pittore Robert Smirke? Più sublime personaggio carnevalesco di così ! E ricordate le streghe del Macbeth, parenti strette delle parche classiche ? Sono parenti strette anche delle “masche” delle tradizioni delle Alpi nonchè di quegli esseri mostruosi, come uomini e donne gozzuti (col “magun”) generati dalla fantasia popolare e che, a suo tempo, diedero origine agli immaginari sudditi di Peru Magunella.

Appena Shakespeare se ne va, e siamo nel 1616, ecco che già si intravedono Luigi XIV e poi Molière. L’uno era un impareggiabile intenditore di feste e mascherate che sotto il suo regno divennero capolavori in tutti i sensi. L’altro sublimò la Commedia dell’Arte che aveva ovunque fatto proseliti ed estimatori. Sganarello, Scapino, Crispino furono la rappresentazione eccelsa di tante “maschere” intriganti; o doppiogiochiste per campare eludendo le cattiverie dei potenti; o strane o geniali che ebbero altri nomi nei diversi paesi europei e nelle diverse regioni di ciascun paese. Ma non scherzò neppure Cristina di Francia (1606-1663), detta “Madama”, che andò in sposa a Vittorio Amedeo I di Savoia. Quando arrivò a Torino, a due passi dalla morigerata montagna piemontese, per suo impulso nacque il balletto classico così come lo conosciamo oggi. Lei e le altre Madame Reali fecero anche zampillare con feste, balli, esibizioni di commedianti quelle correnti culturali delle quali si sono successivamente imbevuti i Carnevali di tutto il Piemonte. Alla maniera inglese e per esigenze di comicità, sotto i panni di nutrici prosperose o di altri singolari personaggi femminili si nascosero anche maschi. Però, alla corte di Madama Cristina la femminilità rappresentò se stessa in mascherate o balli sfrenati, e lo stesso accadde altrove.

Poi, nel Settecento, sulla scena del Carnevale che s’intesse sempre più fittamente con tante vicende politiche, generatrici di satira, si staglia la figura di Carlo Goldoni. Nacque a Venezia il 25 Febbraio 1707, in pieno Carnevale. Qualche anno dopo, scriverà: “Non può negarsi che io sia nato sotto gl’influssi di stella comica…”. E difatti dalla sua mente escono i “carnevaleschi” Brighella, Florindo, Rosaura, Arlecchino, Pantalone mentre per calli e canali, in quegli stessi anni, siamo alle solite: ogni veneziano continua a far carte false per una maschera degna di questo nome e per potersi divertire spostandosi a capriccio da un posto all’altro. “Così è – taglia corto la goldoniana Putta onorata – . Non posso andare in barca e vado per terra”.

E a Borgosesia? Il 1700 fu verosimilmente un periodo di routine dal quale non mancò qualche rogna. Forse perchè i gaudenti avevano ecceduto, i Piemontesi sabaudi che avevano appena incamerato la Valsesia fecero la faccia feroce. E nel 1707 furono emanate Ordinanze reali contro le gazzarre notturne e le intemperanze diurne. In realtà, l’applicazione delle “pene” fu blanda. Più avanti, andò invece diversamente per alcuni giovani che avevano senz’altro preso un abbaglio sul “sense of humor” della burocrazia napoleonica. In uno sfortunato giorno di Carnevale saltò loro in mente di mimare lo sposalizio e il battesimo comunista sotto l’Albero della Libertà sistemato davanti alla Casa Comunale. Apriti cielo! Furono perseguiti, trascinati a Novara, davanti al tribunale del Dipartimento dell’Agogna, e processati. Se non ci fosse stato un notabile del “Bôrg” a trarli d’impaccio, per gli scapestrati sarebbe finita molto male. Ma “sic transit gloria mundi”. Napoleone fu tolto di mezzo. Ancor più tetri dei napoleonidi furono gli uomini della Restaurazione che erano incapaci di tollerare anche lo scherzo più blando.

Come non bastasse, s’aggiunsero vampate del risvegliato fuoco della Controriforma. E dal 1814 al Risorgimento “Ciao Nineta”: di Carnevale non si parlò più.

Un bel giorno, però… Quel giorno del 1850 i fratelli Antongini, vinai di Milano, salirono al “Bôrg” perchè, si dice, avevano cantato con troppa foga la patriottica “Bela Gigogin”. In regione Aranco di una Borgosesia che allora non avrebbe mai immaginato di diventare una città ma che era già importante per la pastorizia e come mercato della lana, costruirono una Filatura. E per via di un loro socio tedesco Chumachen, fecero venire dalla Germania provetti tintori. Fra di loro c’era anche Err Bomen, alsaziano e subito ribattezzato “Meneghin”. A costui rimaneva indigesta la constatazione che a Borgosesia i Carnevali parevano altrettanti funerali, o, più probabilmente, a causa di una colossale sbronza la notte del Martedì Grasso, protrattasi fino alla mattina del Mercoledì delle ceneri; tant’è che il primo giorno di Quaresima del 1854 simulò un funerale in tutta regola: le esequie del Peru Magunella ancora senza costume; o più simbolicamente le esequie del Carnevale che avrebbero dovuto tenere occupati i borgosesiani “in mesta letizia” per tutta la giornata. Era stato inventato il Mercu Scûrot, giacobino protrarsi nel giorno delle Ceneri delle trasgressioni di Carnevale, ma anche compromesso fra il rito romano e il milanese rito ambrosiano che consente le manifestazioni carnevalesche fino al sabato successivo. E adesso procediamo con un po’ d’ordine perchè sulla nascita del Mercu Scûrot ci sono più versioni e perchè non tutti i particolari combaciano.

Come nella rappresentazione di certe saghe nordiche, prima del 1886 il Peru Magunella (o il Carlavèe) era soltanto un pupazzo. Corpo pieno di paglia. Faccia di tela dipinta.Vecchi abiti trovati chissà dove. Gozzi ottenuti con vesciche colme d’acqua. Intriso di polvere pirica perchè sul rogo scoppiettasse allegramente, era impalato e portato in giro per le strade del “Bôrg”. Le regole, non si sa da chi dettate, prevedevano un corteo che si ingrossava via via col trascorrere delle ore. Ma l’ossatura, l’anima della singolare processione era costituita dai “Burdoji d’la scova”. Vediamoli da vicino perchè sono i progenitori di tutti coloro (e sono tanti) che, ogni anno, animano il Mercu Scûrot. I “Burdoji d’la scova” erano, dunque, l’assieme delle mascherate rusticane caratterizzate da due “strumenti di lavoro” (si fa per dire) e di divertimento: il “sciopet” di legno, poi diventato il “casû”; e la “scova”, la scopa. L’uno e l’altra erano strettamente connessi. Infatti il “sciopet”, legato al collo perchè non andasse mai smarrito, in ogni osteria, o casa, doveva essere riempito da un vinello detto “scabbiu” o “mericanet”. La “scova” entrava in azione ogni volta che un malcapitato rifiutava di mescere “mericanet”. E come avrebbe poi fatto anche il Peru con le orde di Menelik dalle parti di Massaua e Assab, “giù scovai d’la malora”. Già  prima del Mercu Scûrot, l’effigie del Peru Magunella nella serata di Martedì Grasso era portata in Piazza Grande. E qui, circondato dalla sua corte dei miracoli, era bruciato al rogo fra canti e lazzi. Come abbiamo già detto scocciatissimo per la lugubre conclusione del Martedì’ Grasso del 1854, il signor Bomen, di ritorno da chissà quale veglione, nella mattinata del giorno successivo si fabbricò un suo personalissimo Peru Magunella.

E nel letto di casa fece un catafalco mettendoci sopra il defunto. Quindi corse dagli amici, seccati e mesti come lui. Secondo la tradizione raccolta da Carlo Conti, l’alsaziano gridò drammatico, in quel suo tedesco-borgosesiano; “Mi pover om, mi gòo roba grossa casa mia”. Stando, invece, alla tradizione raccolta da Pino Genesi, Bomen riuscì a trascinare a casa sua gli amici Fiori e Zenone (Mambrin) dove, davanti al catafalco, sighiozzò:”Ecco il poffer Carlavèe”.E’ da quel momento, un fiorire di azioni sceniche che hanno come fondale luoghi di ritrovo e vie di Borgosesia. Bomen, Fiori e Mambrin decidono per la sera, “quand ca l’è già un po’ scûrot” (da cui, forse, Mercu Scûrot) pubbliche e solenni onoranze funebri. I particolari sono messi a punto, poco dopo, nella farmacia di Michelangelo Burla, detta anche farmacia della maldicenza. Quando, sull’imbrunire, il corteo si muove, il colpo d’occhio è perfetto. Il Turc (il banditore comunale Cresceris) incede rullando il tamburo ed annunciando il trapasso.

Dietro viene il Tinivella, straordinario tipo di antiquario e materassaio anche lui come il Chin dell’86 che salvò il Peru, sorreggente un trofeo dal quale “grondano” saracche, polli e merluzzi. Le spoglie del Peru Magunella sono portate a spalla sul catafalco da quattro signori compunti: ‘l Balaran, ‘l Sebastopoli, ‘l Jacu Gros, ‘l Maracitu. Il corteo in gramaglie è formato da uomini in abito scuro e cilindro che in mano sorreggono una candela. Sennonchè il funerale si fermò ad ogni osteria come se si trattasse di cappelle votive; e, tanto per lenire il dolore, i partecipanti si concessero abbondanti bevute rispettando scrupolosamente gli insegnamenti dei “burdoji d’la scova”. Conclusione: a sera ormai inoltrata la “cara salma” fu ignominiosamente abbandonata ‘ntla cuntràa Larga (secondo la tradizione raccolta da Pino Genesi) o ‘ntla cuntràa Freggia (stando alla versione raccolta da Carlo Conti) mentre i “dolenti” finirono nel gorgo di una terribile “rotonda piomba”. Il Peru dovrà attendere l’anno successivo per salire al rogo.

Il tintore Bomen ed i suoi amici ce l’avevano però fatta: il Carnevale di Borgosesia era resuscitato e con l’aggiunta del Mercu Scûrot era ormai destinato ad un’originalità che farà molto discutere. Regole, riti, abiti, iniziative, interpretazioni di una tradizione dipanatasi come abbiamo visto dal Medioevo, si andranno precisando nel trentennio tra il 1855 ed il 1885. Vista oggi, a più di un secolo di distanza, la successione dei fatti sembra assai veloce. In realtà, è stata una successione laboriosa: anno dopo anno, si sono formati i tasselli poi diventati le parti essenziali, variamente colorate e sfumate del Carnevale di Borgosesia, certamente carnevale di popolo che trae alimento dalla più genuina tradizione italiana.

Perdiamoci brevemente in questo incalzare di avvenimenti, incominciando dalla adozione definitiva del Peru Magunella come maschera di Borgosesia. Il poeta valsesiano Pinet Turlo cercò di fugare ogni dubbio scrivendo nel 1937 per il Corriere Valsesiano un articolo sullo specifico argomento: “Credete a me, il Peru è ufficialmente nato nel 1855 come mi ha confermato il segretario comunale di Borgosesia del tempo, il notaio Enrico”. Il 1856 è, secondo una tradizione (l’altra propende per il 1858) l’anno della scelta del Gonfalone del Comitato, e quindi del Carnevale, raffigurante il “Peru in cimbalis”, ossia decisamente euforico, e destinato ad aprire ogni corteo carnevalesco. Due anni dopo hanno un peso decisivo il Direttorio nel quale si era ammessi comperandosi il seggio all’asta, Società, associazioni e confraternite che renderanno il Mercu Scûrot ancora più vivace.

Altra tappa fondamentale nel 1861, primo dell’Italia unitaria: il Comitato organizza, per la spinta dei princìpi di libertà politica che s’erano affermati definitivamente, la prima sfilata di carri allegorici e satirici. Da quell’anno, i programmi del Carnevale di Borgosesia sono integrati da spettacoli, feste da ballo, veglioni. Carlo Conti ha fissato con le sue ricerche al 1871 la definizione della “divisa” dei partecipanti al Mercu Scûrot, destinata anche ad ispirare la foggia del Peru che, invece, sarà definita nel 1886. Stando alle regole stabilite allora, i “Cilindrati” (dal cilindro proprio di chi seguiva i funerali, come abbiamo già visto) hanno il dovere di portare la “fraccanda”, o la “vaianna” (simile al raffinatissimo frac ottocentesco) aggraziando il nero del copricapo e dell’abito con un’esuberante “gala” di garza bianca.

La partecipazione ai vari, pantagruelici pranzi ufficiali (i primi risalgono al 1858) è di rigore; così come è obbligatoria la presenza al corteo pomeridiano del Mercu Scûrot, dopo la “levata da tavola” suonata dalla Banda musicale cittadina. I “Cilindrati” hanno dal 1871 un altro obbligo inderogabile: prima di assistere al rogo del Peru, per l’appunto al tramonto del Mercu Scûrot, devono fermarsi a tutte le “cappelle votive” (leggi osterie) dislocate sulla strada e far uso abbondantissimo del “casû” (l’antico “sciopet”, abbiamo già detto) per gustare quel nettare che già il padre Noè chiamava vino. Ma il 1871 è anche importante per la prima edizione del testamento olografo del Peru, una manifestazione di satira talvolta feroce che nell’Ottocento fiorì rigogliosa per l’opera di scrittori e di disegnatori. L’ “invenzione” è attribuita al notaio Della Giulia, di Aranco.

La satira è, forse, l’involontaria causa anche dell’unico incidente mortale che funestò, nel 1880, le cronache del Carnevale Storico di Borgosesia. Fra i carri che quell’anno partecipavano alla sfilata, ne figurava uno contro il Fisco oppressivo (che novità…). La maggior attrazione di quel trionfo era una ruota, i cui raggi simboleggiavano le numerose tasse, che girava in posizione orizzontale e sulla quale era stato crocefisso il Contribuente, rappresentato da un uomo di Serravalle. A forza di girare, il poveretto si sentì male e morì in serata mentre lo riaccompagnavano a casa in condizioni ormai disperate.

E, finalmente, rieccoci al Peru-metafora del 1886. La storia del mitico carnevale di 110 anni fa è davvero tutta da raccontare, anche perchè da quattro giorni intensi salta davvero fuori com’erano fatti e cosa divertiva i nostri bisnonni. Però, facciamo prima un ultimo passo indietro: al 28 Settembre 1885, giorno dell’inaugurazione della linea ferroviaria Novara-Varallo. Gli organizzatori delle manifestazioni del Carnevale ne tengono subito conto, e decidono: “Il Peru dovrà giungere trionfalmente per ferrovia alla Stazione di Borgosesia, anche perchè è un eroe essendo andato in Africa a combattere i ‘musi neri’ di re Menelik”. C’è, però, un piccolo particolare da non sottovalutare: il Peru non ha ancora una compagna ufficiale, una moglie. Ed allora, ecco formarsi come d’incanto un copione fatto alla maniera dei passionali romanzi d’appendice dell’Ottocento, base per i libretti delle stesse opere verdiane; ma anche fatto di mille variazioni sul tema, di trovate esilaranti, di allestimenti scenografici sorprendenti, di ironia bonaria seppur ruvida in un contesto sociale dove la gente ha voglia di ridere e sa stupirsi.

I primi attori sono Francesco Ottone (gli tocca interpretare la Gin, sarà a lungo sindaco di Borgosesia e vivrà fino al 1942) e Battista Mongini (geometra, poeta e musicista, che vestirà i panni del Peru Magunella e morirà in giovane età). Dietro alle quinte, gli scenografi stabiliscono per prima cosa quali costumi dovrà indossare la coppia. Lui, il Peru, avrà la “vaianna” di mezzalana color mattone, ampio bavero, camicia con collo a punta, gala di garza vistosa, panciotto grigio decorato da grossa catena d’oro per l’orologio, braghe di panno color oliva scuro, fascia multicolore, calze di lana intessute con anelli bianchi e rossi, scarpa basse di cuoio, pettinatura a zazzera, cappello a cilindro, ma grigio, per simboleggiare la sua supremazia su tutti i cilindrati. Lei, la Gin, è una sposa campagnola ma elegante. Pertanto, avrà una gonna lunga di seta azzurra, corpetto di seta ricamata, grembiule di seta cangiante e color fragola, lo “scialett” a fiori, le scarpette di stoffa rossa, le “mitene” di rete bianca e fiocchettate nelle mani, capelli raccolti sulla nuca e cappello di feltro marron ravvivato da un nastro di seta multicolore. A completamento sarebbe stato aggiunto in seguito l’ombrellino, amatissimo accessorio per l’eleganza femminile del secolo scorso.

L’atto primo di questa iniziale commedia s’apre sulla stazione di Borgosesia inaugurata da pochi mesi. Il Peru arriva con il sospetto, alimentato dalle voci riportategli intenzionalmente, che la sua “morosa” Gin l’ha lasciato partire per l’Eritrea e, poi, è finita fra le braccia di un tale indicato dalla malignità popolare come “Ciavattin puttana”. La direzione della ferrovia non ha ancora avuto il tempo di costruire pensilina, marciapiede, strada d’accesso, sicchè i viaggiatori sono calati dal treno con carrucole. Quando tocca al Peru, la corda si spezza, il poveretto cade e rotola fino ai prati della contrada di Cancino e viene soccorso dai Carabinieri. Mentre i militi della Benemerita lo portano su una carriola all’ospedale, ecco il colpo di scena: il Peru (precisa il recitativo) “…al vough la Tiresin clèe drèe, tûtta cûntenta a basèe sù al sòo ciavatin”. Altro colpo di scena: non sopportando le corna, il giovanotto si getta nel Sesia e l’acqua lo trascina fino a Bettole dove incappa nel bertavello del Chin e dove questo lo salva.

L’atto secondo ha sullo sfondo Borgosesia, e per il fuori-campo è stata scritta la “Storia dolorosa del Peru Magunella”, musica e versi di Battista Mongini, destinata a diventare il pezzo forte dei carnevali successivi. Il Peru ritorna in città sul carro del Chin, fa la pace con la Gin. Secondo una versione si sposeranno quell’anno stesso, secondo un’altra l’anno successivo in “un elegante padiglione eretto di fronte al Municipio” (nel 1887 appunto, vi furono anche le prime grandi sfilate sulla falsariga di quelle che intendiamo adesso, e per questo si considera questo il primo Carnevale di Borgosesia).

Per il terzo atto, il palcoscenico è fatto coincidere con la piazza principale di Borgosesia sulla quale scorrono i giorni “caldi” del Carnevale del 1886, dalla domenica al martedì. La gente non s’è ancora ripresa dal primo, gran Ballo della Giubiaccia (nel Teatro Sociale, con scenografia riproducente un paese africano e dove per la ressa dovettero essere sospesi gli ingressi) che già si trova davanti ad altre meraviglie. C’è, allestito in piazza, il Banco di Beneficenza in favore del Ricovero dei Vecchi. C’è un padiglione dedicato alla Pesca miracolosa nel Mar Rosso. C’è la Grotta delle Sibille, simile alle grotte del Fenera, dove le “sonnambule” scoprono perfino il sesso degli interlocutori mascherati tanto che una di esse, con barba e baffi, deve dire senza tanti complimenti alla Gin press’a poco così: “Uomo, non donna. Se non ci credi, toccati e vedrai”. Ma, soprattutto, attira frotte di curiosi il gabbione di Ras Ciancias, così battezzato perchè il Ras è interpretato da Roberto Ciancia, ma, forse anche come storpiatura di Ras Mangascià, fiero capo eritreo. Gli effetti speciali studiati con accuratezza dagli scenografi, daranno agli astanti questa visione orrida: la testa mozzata del Ras Ciancias, che si riflette su uno specchio che fa da gorgiera mentre nella sua bocca entrano in continuazione carne, salamini, ogni ben di Dio.

Ci sono, in questo atto che punta decisamente ad essere un grande dipinto di vita ottocentesca, anche “quadri” secondari per promuovere la vendita del numero unico “Allegria e beneficenza” fresco dell’inchiostro della “Stamperia Galimberti”; per propagandare il nuovo ballo “schiccia-schiccia”; infine, per assicurare (come nella realtà sarebbe avvenuto) il gran ballo del lunedì, denominato “Veglionissimo dei Mori” e con la presenza del Peru e della Gin sotto le spoglie mentite di Menelik e di sua moglie Taitù.  Quadro a sè, quasi un atto, è la sfilata dei cinque carri allegorici preceduti dal trionfo con a bordo gli sposi Peru Magunella e Gin Fiammàa, che si snoderà il martedì grasso del 1886. L’intendimento (come poi accadrà) è di stupire  con la nave Italia, tutta congegni per farla beccheggiare come se fosse impegnata nella traversata per Massaua, e trainata da cavalli ricoperti di bambagia “color schiuma di mare”.

Quarto ed ultimo atto. E’ la sera di martedì grasso e la scena si apre sul Teatro Sociale dove gli inservienti cercano di abbassare i lumi e di cacciare fuori i più esagitati. Ma la festa non finisce. La baraonda si protrarrà fino all’indomani, mercoledì delle Ceneri, e per i borgosesiani giorno del Mercu Scûrot. L’esecuzione di questo copione riuscì alla perfezione. Narrano le cronache che ci rimise il posto anche il Pullu, campanaro della chiesa parrocchiale. Non potendone più della baraonda che andava avanti ormai da quattro giorni prese a suonare le campane a morto. Detto fatto: in quel Mercu Scûrot di 110 anni fa, il corteo dei cilindrati si fermò sotto il campanile, riuscì con uno stratagemma a stanare il Pullu e lo fece ubriacare. Naturalmente seguì il suo licenziamento.

Altri affreschi si formeranno ed altri copioni saranno scritti nei 110 anni che verranno dopo questo memorabile , primo Carnevale di Borgosesia. Ma anche se gli ingredienti originari della tradizione continueranno ad essere gli stessi, gli affreschi ed i copioni non saranno sempre grandiosi e irresistibilmente divertenti. Infatti, ci si sarebbero messe di mezzo due guerre, il Fascismo che avrebbe ridimensionato drasticamente la “vis satirica”, la periodica caduta d’entusiasmo causata dalle vicende che hanno costellato il secolo alle nostre spalle. Anche nei momenti più bui, un impegno sarebbe comunque stato mantenuto: quello del Mercu Scûrot, sottile quanto incisivo modo di fare la fronda dietro le bisbocce solo apparentemente ingenue e goliardiche.

Per finire, ripercorriamo quasi alla maniera del Mercu Scûrot gli ultimi 110 anni, soffermandoci sui Carnevali che più sono entrati per le loro particolarità nella “memoria storica” della comunità borgosesiana. Il Carnevale del 1912 fu quello delle nozze d’argento del Peru e della Gin. Nel 1921, su musica di Sabatini e testi di Monti, fu presentato l’inno ufficiale del Carnevale di Borgosesia. Nel 1933, finalmente la Gin mise da parte tutte le prurigini e fu donna. Piero Vidale nel 1935 musicò le parole di Enea Gilodi “La cansun dal Mercu Scûrot”. Carnevale forse mai più superato fu quello del 1937: il Carnevale del Cinquantenario se si incomincia il conteggio dal 1887, anno del matrimonio di Peru e Gin e del primo, autentico corso mascherato, come lo intendiamo oggi. Il Corriere Valsesiano, scrupoloso notaio delle cronache del Carnevale di Borgosesia, annotò che i carri furono magnifici e che ad ammirarli accorsero ventimila persone. Poi, dopo la seconda guerra mondiale, e nel 1946 la riscoperta del gusto di stare insieme per fare qualche cosa, ecco il Carnevale del 1949 con ben 15 carri e con le antiche maschere frazionali, altrettanti frammenti dell’animo popolare che ricomponendosi, hanno forse generato il Peru. Ricordiamole, così come nel 1980, sono state elencate nell’accuratissima tesi di laurea di Marina Alciato: il Senator di Cravo, l’Avucat di Cartiglia, il Re Panicet di Foresto, il Butareu di Bettole, il Pautulun di Plello, il Mursel di Montrigone, il Lassanèe di Isolella, il Trottapian di Caggi, il Tulu di Aranco, il Bataru di Agnona. Dimostrandosi un amico delle novità come il suo bisnonno che nel 1886 non ebbe paura del treno, il Peru nel 1952 giunse a Borgosesia in elicottero. Il Carnevale fu quell’anno grandioso e il suo programma propose ben quattro sfilate di cui una notturna.

E’ giusto ricordare anche la “maglia nera” dei carnevali di questi ultimi cinquant’anni: toccò al 1954 che, secondo le proclamate intenzioni avrebbe dovuto essere strepitoso, ma che finì letteralmente nel nulla sicchè, alla fine, si celebrò soltanto il Mercu Scûrot.

Il Carnevale del 1959, degno della migliore tradizione, preparò la serie più fortunata degli anni Sessanta e Settanta, con il recupero non solo della spettacolarità delle sfilate ma con l’introduzione di cerimonie mai previste prima e di iniziative di indubbio valore culturale. Nel 1964, per la prima volta dacchè si svolgeva il Carnevale, il Sindaco di Borgosesia Giuseppe Regis Milano consegnò in Municipio le chiavi della città al Peru e alla Gin sotto i cui panni c’erano Mario Casagrande e Dina Cappellaro.

Il Carnevale del 1965 fu dedicato interamente ai bambini; nel 1974 con una splendida intuizione arrivò l’iniziativa della “Busecca” in piazza, oggi giunta alla distribuzione gratuita di oltre ottomila razioni; nel 1976 nacque il Palio dei Rioni, uno splendido drappo ricamato interamente a mano dalla signora Ojoli, premio del Rione vincente fra i carri. Venne poi il 1987, anno del Carnevale del Centenario, che deve essere ricordato, fra le altre cose, per il Convegno nazionale delle Maschere al Teatro Sociale e per il Carnevale più alto d’Europa a Punta Indren, sul Monte Rosa. Sono venuti poi gli anni del declino fino alla Guerra del Golfo che ha significato, l’anno dopo, uno stop per le sfilate; ma da qui un continuo crescendo verso l’appuntamento del Carnevale del 2000, con le sfilate sempre più ai livelli dei fasti passati e con iniziative, ultima delle quali il “Palamagunella”, che danno una dimensione sempre maggiore al Carnevale di Borgosesia.

In questi 110 anni i trionfi della tradizione medicea e romana formatasi in epoca rinascimentale, l’hanno naturalmente fatta da padroni a Borgosesia come, del resto, in tante località italiane ed europee rinomate per le loro sfilate. Ma a Borgosesia è scattata una molla in più che ha portato alla scuola della cartapesta. E, con la scuola della cartapesta che ricollega ai fabbricanti rinascimentali di fattezze, sono stati rinverditi antichi valori; primo fra tutti quello della caricatura che, con la deformazione esterna ottenuta con la manualità, va all’essenza delle cose. Max Beebhoom è un drammaturgo inglese fra i più efficaci e i più discussi del ‘900. All’alba di questo secolo, nel 1901, scrisse: “La caricatura più perfetta è quella che, in poco spazio, con i mezzi più semplici, esagera più accuratamente e al massimo grado le particolarità di un essere umano, nel suo momento più caratteristico, nella maniera più bella”.

La scuola della cartapesta, figlia prediletta del Carnevale di Borgosesia, ha preso per mano specialmente i bambini e li sta conducendo sulla strada dell’ideale espressività indicata da Beebhoom. E’ una garanzia per altri decenni di carnevale sempre più significativo. E sempre più spettacolare perchè così oggi vuole la civiltà dell’immagine e del “media” televisivo. Ma con le radici sempre più affondate nell’animo popolare dal quale, come s’è visto, sono sgorgate le migliori tradizioni carnevalesche italiane.

Enrico Villa – Introduzione al libro “Il Carnevale di Borgosesia – Cent’anni”.

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